Un mio amico ha deciso di movimentare un po’ questo blog, finora monostilistico, e ha scritto un resoconto su un locale di Berlino che gli piace molto, il Morgenrot. Io l’ho letto volentieri e così ve lo giro….Vai Maurizio.
“Senza interrompere la sua pedalata, Daniel si gira indietro e mi fa cenno che siamo quasi arrivati. Ci fermiamo, cerchiamo il primo palo libero per parcheggiare le nostre bici. Pare siano tutti occupati. Sulla Kastanienallee la densità di biciclette è proporzionata a quella dei locali notturni, entrambe molto alte. Finalmente ne troviamo uno. Chiudiamo i lucchetti ed entriamo.
A parte l’impatto brusco con lo sbalzo di temperatura tra esterno e interno (bisogna abituarvisi qui a Berlino), il locale non mi colpisce granché a prima vista. Una birreria come tante, piuttosto spaziosa, con bancone in posizione centrale a forma di ferro di cavallo e tanti tavoli in legno tutt’intorno. La luce è chiara ed uniforme dappertutto. La musica è gradevole, alternativa, militante. Ad un tratto il mio orecchio riconosce un pezzo rap di una band partenopea della sinistra radicale e mi stupisco piacevolmente del fatto che certa bella musica delle mie parti sia conosciuta ed apprezzata anche qui.
Seduti sugli sgabelli prospicienti il bancone, il tempo scorre tranquillo tra una birra e l’altra. Daniel mi racconta degli anni in cui, subito dopo la caduta del muro, l’intero palazzo che oggi al piano terra ospita il Morgenrot era occupato da artisti di ogni genere e funzionava come uno dei più attivi centri sociali e culturali autogestiti della città. Recentemente, per restare in tema con il passato, ai piani superiori è stata aperta una scuola di balli etnici.
Quando la serata sembra avviarsi lentamente verso l’epilogo, mi invita a seguirlo giù, al piano inferiore. Non immaginavo ve ne fosse uno. Non me ne sarei accorto da solo. Le scale, strette, malandate e piene di flyers di ogni genere alle pareti, sono nascoste nel fondo della sala. Ai loro piedi, sulla sinistra vi è un vano minuscolo con un biliardino abbandonato a se stesso. Sulla destra invece si apre una saletta di passaggio, dotata però di un piccolo bancone bar e tavolini propri, la quale conduce a sua volta nell’ultimo ambiente, un po’ più ampio. Lì la luce è molto bassa. Al centro vi domina un tavolo da ping-pong.
“Oggi è la giornata settimanale dedicata al Tischtennis” mi dice “di lunedì invece qui sotto vi è sempre un concerto dal vivo, il martedì è la volta della mensa popolare, il giovedì …”. Mentre prosegue il suo interessante elenco, vengo distratto da un’altra pungente curiosità. Come si farà mai a giocare a ping-pong in questa insolita ed oscura ambientazione? Semplice, alla berlinese! Ogni giocatore ha bisogno di due cose, una racchetta in una mano ed una birra nell’altra. Nel caso ad alcuni manchi la prima, si può sempre ovviare colpendo con la mano libera, ma a nessuno deve assolutamente mancare la seconda, di modo da poter chiosare ogni colpo con un bel sorso. I contorni del tavolo, la rete e la pallina sono fosforescenti. I partecipanti al gioco sono di solito almeno una ventina, ma non è previsto alcun limite. In ordine, ciascuno colpisce la palla, poi si sposta dall’altra parte del tavolo, dove si mette in coda ed attende che ritorni il proprio turno per colpire nuovamente. Chi sbaglia viene eliminato fino a nuova partita. Il tutto condito con tanta sportività e autoironia. Ognuno si sposta a proprio modo: c’è chi corre, chi cammina, chi si trascina, chi saltella, chi ne apporfitta per fare un passo di danza. Man mano che il numero dei giocatori diminuisce, occorre spostarsi sempre più velocemente. Quando poi si resta davvero in pochi, per poter reggere il ritmo è addirittura ammesso, al fine di essere più agili e rapidi, liberarsi della bottiglia posandola da qualche parte, salvo tornare a riprenderla subito dopo la giocata. L’atmosfera è ilare e gioiosa.
Nelle lunghe pause, in attesa che finisca la partita in corso e ne inizi una nuova, gli eliminati (poverini?) hanno agio di fare fare quattro chiacchere con qualche graziosa giocatrice, ingaggiando scherzose sfide personali in vista della tornata successiva. Molto spesso, a causa del trambusto circostante o della babele delle lingue, si finisce per non capirsi granché. Ma la graziosa giocatrice ti guarda negli occhi e sorride. Tanto basta.
“Quante partite hai vinto?” – gli chiedo mentre, infreddoliti brilli e giocondi, cerchiamo goffamente di slacciare i catenacci delle rispettive biciclette per rimetterci finalmente in cammino verso casa. “Non saprei, ma certamente più di te!”. Mi risponde Daniel con fare ironicamente provocatorio, ormai già in groppa al sellino e pronto a ripartire. “Eh già …” ribatto io con altrettanto ironico scetticismo, pregustando già il tepore del letto e le future splendide serate al Morgenrot.”